(di Marzia Apice)
PHILIPPE BOXHO, LA PAROLA AI MORTI.
INDAGINI DI UN MEDICO LEGALE (Ponte alle Grazie, pp.240, 18
euro. Traduzione di Rossella Monaco). "I miei lettori sono
bisognosi di verità, e io racconto solo storie vere. Se c'è
rispetto per i defunti, della morte, non certo dei morti, si può
anche sorridere": non c'è alcun intento macabro, anzi al
contrario un profondo desiderio di parlare dell'imprevedibilità
della vita nel lavoro letterario di Philippe Boxho, medico
legale e criminologo belga, autore del libro "La parola ai
morti", edito in Italia da Ponte alle Grazie. Il libro, che
insieme ai due lavori successivi (un quarto è in scrittura) ha
venduto complessivamente un milione di copie, è diventato un
vero e proprio caso editoriale, acquistato da venti editori
internazionali. Al centro, il racconto di alcuni casi
'eccezionali', tra omicidi che erano morti naturali,
mummificazioni, scheletri in disordine, mummificazioni e finte
impiccagioni: tutte storie vere, frutto del lavoro trentennale
svolto da Boxho sulle scene del crimine e nella sala autoptica,
luoghi in cui il rigore delle indagini, la pazienza e
l'attenzione al più piccolo dei dettagli può fare la differenza
per "far parlare i morti" e risolvere misteri all'apparenza
irrisolvibili. "Ho chiesto spesso ai miei lettori perché amino
così tanto i miei libri. Credo sia perché ci sono storie vere,
eventi di vista vissuta, magari romanzati, ma con un solido
fondo medico-legale. E poi perché le storie sono brevi e non c'è
il rischio di dimenticare dettagli importanti. Infine piace
molto ai lettori il tono che adotto nella scrittura, cinico ma
anche leggero e divertente", ha detto all'ANSA l'autore, in
Italia per presentare il suo libro. Leggendo il volume, accanto
al linguaggio semplice con cui l'autore divulga le informazioni
scientifiche, colpisce proprio l'uso dell'ironia, come chiave
per affrontare storie drammatiche e luttuose: una sorta di
filtro, per dare equilibrio e non concedere mai nulla al
sensazionalismo. Pur a suo agio nei panni dello scrittore, il
passaggio dalla sala autoptica alla pagina non è stato però
premeditato: "La medicina legale fa parlare i morti ma io non ho
mai pensato che il mio lavoro potesse diventare materiale di
scrittura. Non avevo l'esigenza di scriverne. L'idea è stata
dell'editore che ha ritenuto interessante far uscire il mio
lavoro dalle quattro mura della sala autoptica: io ho colto la
palla al balzo", ha precisato. Di certo, quello che traspare è
la passione per un lavoro affascinante, sconosciuto ai più, e la
volontà di raccontarlo per ciò che è, nel bene e nel male,
andando cioè contro la narrazione iper-romanzata e zeppa di
incongruenze scientifiche che caratterizza le crime series
televisive. Forse ha intercettato proprio quei lettori che non
amano questi prodotti televisivi? "E' possibile, perché io
racconto fatti realmente accaduti e i risultati di rigorose
indagini scientifiche. In questo primo libro ci sono le storie
più eccezionali, quelle che di cui parlo ai miei studenti e che
non accadono spesso. Negli altri libri racconto invece altre
storie brevi più comuni, ma non banali, in cui dimostro come
possa accadere che un suicidio sia in realtà un omicidio o che
una morte naturale magari si riveli accidentale", spiega, "ma
non mi occupo solo del presente, mi piace raccontare anche fatti
dell'arte e della storia che hanno a che fare con la medicina
legale. Per esempio mi interrogo sulla morte di re Alberto I, di
Napoleone o di Cristo. E nel quarto libro che sto scrivendo ora
parlo della Sindone conservata a Torino: questo per dimostrare
che la medicina legale si può applicare anche al passato". Quale
tra i casi esplorati in questo libro l'ha colpita di più?
"Sicuramente quello di un uomo che ha dovuto spararsi 14 volte
per riuscire finalmente a morire. Ecco, io ho voluto raccontarlo
perché ho profondo rispetto della sua determinazione a
suicidarsi". Lei ha un controllo assoluto delle sue emozioni: ma
ci sono stati casi in cui il suo equilibrio ha vacillato? "Le
storie che mi sconvolgono sono quelle dei bambini, di loro non
scrivo e non lo farò mai. Non voglio rinnovare il dolore nella
famiglia né provocare uno shock nei lettori", ha spiegato. E' a
suo agio nei panni dello scrittore? "Io non mi sento uno
scrittore, piuttosto mi considero un narratore di storie", ha
concluso Boxho, che interpreterà se stesso in una crime serie
francese, "gli scrittori spesso hanno un messaggio da
trasmettere ai lettori, io invece voglio solo raccontare. Mi è
stato chiesto di abbandonare questo format e provare a scrivere
un romanzo completamente diverso, ma non sono sicuro che ai miei
lettori piacerebbe".
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