(di Paolo Petroni)
Se una cosa ci ricorda questa
pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente
dell'uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi,
registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e
creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze,
epidemie e altri cataclismi. Allora questi romanzi, queste
cronache di day after, queste supposizioni di arrivo al limite e
di salvezza in extremis, con cui viviamo una qualche consonanza,
possono essere qualcosa che ci aiuta a capire e riflettere su
quel che ci sta accadendo e magari a metabolizzarlo in qualche
modo, riuscendo a sapere un poco di più chi siamo.
Certe volte, per riuscirci e non spaventarsi, serve vedere il
lato paradossale delle cose, quanto di buffo può esservi anche
in alcuni aspetti grotteschi di una tragedia. E' quel che fece
Boccaccio, raccontando la peste del 1348 per introdurre una
serie di racconti comici. Due secoli dopo a lui non a caso si
rifà Niccolò Machiavelli in una lunga lettera all'amico Lorenzo
Strozzi.
È il calendimaggio del 1523, il giorno in cui in tempi
normali, si festeggia a Firenze il ritorno della primavera tra
canti, balli,tornei, ma ora la peste infuria. La 'moria', come
veniva chiamata, era scoppiata nel '22 raggiungendo il suo
massimo a primavera del '23. I cittadini ricchi, e Lorenzo è tra
questi, si erano rifugiati nelle ville del circondario, per cui
fu necessario creare una guardia di 50 fanti ''perché le
botteghe e case non fussino rubate''.
All'amico in villa l'autore del ''Principe'' scrive di come
la città vive quel calendimaggio e sulla falsariga d'inizio del
Decamerone, descrive i morti dappertutto, le attività sospese,
la giustizia non amministrata, l'assenza di solidarietà umana e
persino familiare, e per le strade di turbe di straccioni, tra
furti e omicidi. Dopo tale descrizione generale, l'io narrante,
che tale è trattandosi di opera letteraria, descrive ciò che
vede in giro e entrando nelle chiese, alternando appunto a
visioni tragiche fatti comici dal sapore grottesco, in un gioco
quasi parodistico verso appunto i registri del Boccaccio, come
fa notare Pasquale Stoppelli, curatore della ''Epistola della
peste'' (Ed.Storia e Letteratura, pp.80 - 17,10 euro).
In S. Maria Reparata ecco un frate confessore con piedi e
mani legate per non cadere in tentazione. Davanti a Palazzo
della Signoria, tra bare e barelle, trova il banditore del
Comune che, non avendo i vivi necessari, convoca a far da
testimoni all'entrata in carica dei Magistrati anche dei morti.
A Santa Croce ci sono becchini che danzano in tondo cantando
''Ben venga il morbo'' a parodia del ''Ben venga maggio'' di
Poliziano. E così via, pure incontrando un uomo a S. Trinita
perso appresso a una dama, il quale. in quanto innamorato. si
ritiene immunizzato da ogni male e insiste per convincerlo a
innamorarsi veramente anche lui, sino all'arrivo a S. Maria
Novella dove, forse sull'onda dell'incontro precedente, viene
ammaliato da una giovane vestita a lutto, che avvicina, difende
dall'assalto di un frate e riesce a accompagnare a casa. Da quel
momento non pensa che a lei, fattasi sera e tornando dalla
moglie, dove a distrarlo lo aspetta la scrittura di una
commedia. Stoppelli trova arguti paragoni tra atmosfere e alcuni
personaggi col mondo della ''Mandragola'', e dimostra poi con
abbondanza di paragoni, dati e intuizioni la paternità di
Machiavelli di quest'epistola attribuita invece da tempo a
Strozzi.
Un gioco simile, anche se più garbato, lo propone Gabriel
Garcia Marquez in quella storia appassionata d'amore lunga una
vita e con inevitabili lati ironici, tra il telegrafista
Florentino Ariza ''dagli occhi spaventati'' e Fermina Daza con
la sua ''andatura da cerva'' in ''L'amore al tempo del colera''
del 1985 e ambientato in Colombia negli anni '20 del Novecento.
''L'epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate
nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato la più grande
mortalità della nostra storia''. I cadaveri si ammassano e non
trovano più posto e la cattedrale, con gli ''effluvi delle
cripte mal sigillate, le cui porte si riaprirono solo tre anni
dopo, all'epoca in cui Firmina vide da vicino per la prima volta
Florentino alla messa di mezzanotte''. Di quel periodo il dottor
Urbino fu eroe e poi vittima, avendo ideato e diretto di
persona ''per decisione ufficiale la strategia sanitaria, ma
finendo di intervenire in tutti gli affari d'ordine sociale al
punto che, nei momenti più critici della peste, non sembrava
esistesse autorità oltre a lui'', un po' come oggi virologi e
epidemiologi.
Firmina è la moglie del figlio di Urbino, medico anche lui, e
quando resta vedova viene avvicinata dal suo contrastato e
antico amore, Florentino, che confessa, dopo "cinquantatré anni,
sette mesi e undici giorni, notti comprese" di essere ancora
innamorato di lei. Davanti a questo c'è chi è ''turbato dal
sospetto tardivo che sia la vita, più che la morte, a non avere
limiti''.
A suo tempo il padre aveva trascinato Firmina lontano e lei
riuscì a restò un po' in contatto con l'amato grazie alla
solidarietà dei suoi colleghi telegrafisti lungo l'itinerario.
Negli anni, quando lui per esempio un giorno si ubriaca di Acqua
di Colonia per ritrovare profumi e sapori dell'amata, solo
freddi incontri casuali in occasioni ufficiali. Alla fine, lei
resiste un anno dopo la nuova dichiarazione, finché accetta una
crociera su un battello sul fiume in mezzo a una foresta
disboscata e villaggi infestati dal colera, ma nello splendido
isolamento della suite accanto a quella del capitano, che pagano
per fare girare sul fiume senza attraccare mai per evitare il
morbo, i due ultrasettantenni fanno finalmente l'amore,
risentendosi giovani: ''anche lui cominciò a spogliarsi nella
penombra, gettandole addosso ogni indumento che si toglieva, e
lei glieli ributtava indietro morta dal ridere''.
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